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Ragù Napoletano: origine, storia, ricetta tradizionale

Il ragù a Napoli è religione. Una preparazione dai tempi lunghissimi e dalla notevole necessità di attenzione: non basta mettere a cuocere carne e sugo per molto tempo. La memorabile commedia di Eduardo De Filippo, Sabato domenica e lunedì, ruota proprio attorno a un ragù, e nelle messe in scena più realistiche il soffritto iniziale viene preparato per davvero, spandendo un odore incredibile dal palco a tutto il teatro. Lo stesso Eduardo dedicò al ragù una breve e bellissima poesia. La particolarità più evidente del ragù napoletano è che, a differenza del ragù bolognese, le carni non sono macinate ma si presentano in pezzi interi: da qui deriva sia la necessità di cuocere più a lungo, sia la possibilità di avere un pasto completo, sugo per condire la pasta e carne per secondo. La lunga preparazione rende questa ricetta perfetta per quando abbiamo molto tempo da passare in casa. Il ragù napoletano è una salsa che ha una lunga storia e che ha subito notevoli evoluzioni nel corso del tempo. L’antenato del ragù napoletano è un piatto molto antico e di tradizione popolare. Esso deriva da un piatto della cucina popolare medioevale provenzale che aveva nome “Daube de boeuf” e che era uno stufato di carne di bue, Questo piatto pare risalga al tredicesimo/quattordicesimo secolo. Il “ragout”, invece, che è un piatto francese posteriore, è sempre uno stufato con verdure, ma, generalmente, di carne di montone. Il termine francese ragout deriva dall’aggettivo “ragoutant” che significa allettante, appetitoso o stuzzicante. Questo tipo di preparazione francese inizia a comparire nella cucina napoletana dal diciottesimo secolo, però come piatto di mense ricche realizzato con carni di manzo o di vitello qualità e ancora senza pomodoro. Dell’uso del pomodoro nel ragù, invece, parla, forse per la prima volta, Carlo Dal Bono che nella sua opera “Usi costumi di Napoli” risalente al 1857, cosi descrive la distribuzione dei maccheroni da parte dei tavernai. La parola ragù, ovviamente, è una deformazione del termine francese “ragout” che rispecchia la sua effettiva pronuncia. Questa è una deformazione tipica del dialetto napoletano che ritroviamo anche nei termini: sartù, gattò, crocchè, purè. L’acquisizione nel dialetto napoletano di questi termini derivati dal francese, avviene proprio nel periodo a cavallo fra il diciottesimo ed il diciannovesimo secolo quando, sotto il regno di Ferdinando IV di Borbone vi fu una grande influenza della cultura e delle mode francesi nella corte Borbonica. Originariamente costituiva il piatto unico della domenica, in quanto il sugo veniva utilizzato per condire la pasta, e la carne consumata come seconda portata. I tipi di carne impiegati nella preparazione del ragù sono numerosi, e possono variare anche da quartiere a quartiere, ed inoltre, questa non è macinata ma è cotta a pezzi grossi, da 500 g fino a un kg, tagliati a mo’ di grossa bistecca, farcita con ingredienti vari (uvetta, pinoli, formaggio, salame o lardo, noce moscata, prezzemolo) e legata con uno spago. Generalmente viene utilizzato un misto di carne di manzo (tagli anteriori e poco pregiati, che necessitano di lunga cottura) e di maiale. Troviamo il muscolo di manzo (gamboncello o piccione), le spuntature di maiale (tracchie), l’involtino di cotenna (cotica), la polpetta e la braciola, termine che viene usato però per indicare un involtino di carne di manzo ripieno con aglio, prezzemolo, pinoli, uva passa e dadini di formaggio. Tradizionalmente, la preparazione del ragù inizia di buon mattino, in quanto la salsa deve addensarsi molto, cuocendo a fuoco lento, fino a diventare di una consistenza molto cremosa, prima di poter condire degnamente una buona pastasciutta. In molte varianti del ragù napoletano viene impiegato anche un cucchiaio di concentrato di pomodoro.

Ricetta tradizionale 

Soffriggere la cipolla in olio d’oliva extravergine, molto dolcemente. Aggiungere le carni e farle rosolare per bene da tutti i lati, sempre a fuoco basso.
Far sfumare con il vino, rigorosamente rosso: questa operazione andrebbe eseguita a più riprese, non in un colpo solo. In seguito mettere un po’ alla volta il concentrato di pomodoro, stando attenti che scurisca ma non bruci. Durante queste operazioni la carne andrà rivoltata più volte, quindi non è il momento di allontanarsi e perdere di vista il ragù. Infine aggiungere la passata di pomodoro, eventualmente con un mezzo bicchiere d’acqua, non di più, e alzando la fiamma delicatamente, e per non più di qualche minuto, solo per riequilibrare l’inserimento di ingredienti freddi. A questo punto, e saranno già passate due ore minimo, il ragù deve pippiare: è il segreto del ragù napoletano, un effetto che non corrisponde precisamente all’italiano sobbollire, e che consiste in una lenta evaporazione, che produce un rumore quasi impercettibile e un movimento ai limiti dell’invisibile sulla superficie del sugo. Per ottenerlo non si deve né incoperchiare – che altrimenti tutto il vapore si condenserebbe e riprecipiterebbe nel sugo annacquandolo – né lasciare scoperto, a rischio di non riuscire a tenere stabile la temperatura: porre il coperchio leggermente sfalsato da un lato, e tenuto sollevato dall’altro lato con l’immancabile cucchiarella di legno. Questo sugo densissimo e scuro è perfetto per condire una pasta grossa come i paccheri, ma il suo accompagnamento tradizionale sono le zite lisce spezzate a mano.

𝐏𝐢𝐧𝐨 𝐒𝐚𝐧𝐠𝐢𝐨𝐯𝐚𝐧𝐧𝐢




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